STORIA DELLA FIERA PESSIMA

Molti studiosi, in seguito a numerose ricerche storiche, hanno fissato le origini della fiera tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV. L'assegnazione alla cittadina messapica (che allora si chiamava con il nome di Casalnuovo) di una fiera fu accordata dalla regina Giovanna II D'Angiò. La sovrana, con un regio decreto che stabiliva lo svolgimento di una fiera dal 1° al 15 di marzo di ogni anno, nonché di un mercato da tenersi tutte le domeniche, intese gratificare le popolazioni e i notabili del luogo per la dedizione e la fedeltà palesate in occasione di un precedente evento bellico. L'appuntamento fieristico ebbe uno sviluppo tale da divenire punto di riferimento, imprescindibile, per espositori e acquirenti, tanto da oscurare le contemporanee manifestazioni che si tenevano a Ostuni e a Lecce. Proprio a causa delle rimostranze di questi Comuni, il re di Napoli provvide a ridurre la durata della fiera, stabilendone la chiusura per il 12 marzo. Successivamente, attorno al 1830, fu posticipata la data d'inizio al 9 marzo, così come attestato da un rarissimo manifesto a stampa dell'epoca, custodito presso la biblioteca comunale "Marco Gatti"Di Manduria, col quale l'allora sindaco Ciro Camerario annunciava la riduzione del periodo espositivo. La denominazione di Fiera Pessima risale agli albori del XIX secolo, così come attestato dai documenti ufficiali depositati presso l'archivio comunale di Manduria. Si è cercato, da parte degli studiosi delle tradizioni locali, di dare una motivazione a tale denominazione. Varie le ipotesi avanzate. La più verosimile appare quella legata alle condizioni meteorologiche, non di rado inclementi nel periodo di svolgimento della manifestazione. Meno attendibile quella riferita all'esiguo volume d'affari.
LA FIERA PESSIMA (Scuola G. L. Marugj-Frank di Manduria (TA)

Giovanna II di Napoli autorizzò Casalnuovo (allora nome dell’attuale Manduria) a tenere fiera dal 1° al 15 di marzo di ogni anno. Nel 1742, per ricorso dei comuni di Lecce e di Ostuni, che tenevano fiera al 15 marzo, un rescritto reale ridusse il periodo dal 1° al 12 marzo. Nel 1832 fu successivamente ridotto dal 12 marzo, com’è tutt’ora. Questa manifestazione è detta pure “fiera pessima” (fera pessima) perché nel periodo di suo svolgimento si ha sempre maltempo o una eccessiva piovosità. La ragione però è un’altra. Si tratta di una fiera-mercato rinomata e famosa anche nei paesi limitrofi, ed è una fiera esistente da secoli e da secoli denominata “pessima”. Necessariamente la sua esatta denominazione deve avere avuto origine da qualche evento particolare, “fuori dall’ordinario”, se ha avuto la forza di rimanere impressa nella mente del protagonista, giacché l’aggettivo “pessima” è inesistente nel vocabolario dialettale di Manduria. Allora cercherò di ricordare ai Manduriani quella che è stata l’origine, verosimilmente storica, di tale evento così come fu riferita a noi Seminaristi, nel Seminario Vescovile di Oria, nel lontano 1939, da un Sacerdote Manduriano, Don Tommaso Quero. Si dava, e di dà anche ai nostri giorni ricorrente occasione che la fiera di San Gregorio coincida con intemperie atmosferiche: vento forte, scrosci d’acqua, grandine, nevischio, … La gente frequentava la fiera per fare provviste di viveri, di vestiti, di utensili vari, di arnesi per la campagna …. Ma non dimenticava la devozione verso il Santo Protettore, per cui dopo la presenza in fiera, nel rincasare, non mancava di “visitare” San Gregorio, nella Chiesa Matrice, solennemente esposto su un ricco “tosello”, festosamente illuminato.
Nel lontano andato, il Clero locale era molto numeroso: c’era il Capitolo Collegiale con le varie Dignità Capitolari e i Membri Capitolari. Il Capitolo aveva l’obbligo di riunirsi nella Chiesa Collegiata al mattino e al pomeriggio per recitare parte dell’Ufficio Divino. In qualche anno la terza Domenica di Quaresima coincideva con il periodo della fiera di marzo: l’Ufficio della terza Domenica di Quaresima comportava la lettura di due Capitoli della Genesi nei quali si racconta la storia di Giuseppe venduto dai fratelli: costoro, volendosi liberare dal “fratello sognatore”, lo vendettero a dei mercanti Madianiti e mandarono al loro vecchio padre Giacobbe la sua veste intrisa di sangue di agnello, facendogli credere di averla trovata in quelle condizioni. Giacobbe ricevuta la veste, piangendo il figlio presumibilmente morto, disse: “Una belva feroce ha divorato mio figlio Giuseppe” I Sacerdoti, riuniti nel Coro della Chiesa Madre, recitavano il loro Ufficio in lingua latina, e, per la solennità del Settenario in onore di San Gregorio, lo scandivano in canto gregoriano: il lamento di Giacobbe veniva, quindi, cantato con le seguenti litanie: “Fera pessima devoravit filium meum Joseph” che, tradotto in italiano, significano: “Una belva feroce ha divorato mio figlio Giuseppe”.
La gente che, tornando dalla fiera, intirizzita dal freddo, bagnata di pioggia, disgustata dal forte vento, entrava in chiesa per “visitare” San Gregorio, sentendo il lamento di Giacobbe cantato dai Canonici, intese le parole “fera pessima”, significanti in concreto “belva feroce”, come equivalenti a “fiera mercato disturbata dalle intemperie atmosferiche”. Sarà bastata la fantasia creatrice di una persona emergente per dare inizio ad una denominazione, che è rimasta nella storia di un popolo. E’ vero che, in seguito lungo il corso degli anni, tale denominazione è stata “riferita” dalla gente alla “soltanto” merce scadente che vedeva esposta in fiera; oppure, da parte dei mercanti, al guadagno quasi nullo ottenuto durante le “male annate”, pur avendo essi sopportato tanti sacrifici e tanti disagi originati anche dalle avversità atmosferiche. Si teneva lungo l’attuale Corso XX Settembre (dalla chiesa di Santa Maria ai Giardini Pubblici) e sulla Piazza Garibaldi cioè “mienz’allu Largu” (dalla denominazione che allora aveva questa piazza: Largo di Porta Grande) per le merci varie: attrezzi di lavoro, stoffe, utensili, finimenti, carri, recipienti in creta e in legno, ecc…., mentre gli animali si esponevano nello spiazzo ove ora sorge la Scuola Media “G. L Marugj” (mienz’alla fera). L’afflusso dei forestieri cominciava alcuni giorni prima dell’inizio della fiera. Loro trovavano alloggio nelle locande (locanda ti li fiuri, ti sott’allu tirloci, ecc.) mentre gli animali e i loro guardiani trovavano sistemazione in appositi recinti (curtiji). I mercanti innalzavano tende e baracche e lì sotto dormivano. Le granaglie, in sacchi, erano custodite sotto i carri con le stanghe all’aria (trainu mpicatu) su cui venivano stese coperte (manti) a mo’ di tenda. Lu nuciddaru si assopiva sui mezzi sacchi della sua mercanzia: nuceddi miricani, castagni ti lu preti, pastiddi, mennuli brustuliti, simienti, ciciri rrustuti. Sotto la baracca vi era lu capitaru e vicino allu canzieddu c’era il vecchio pescatore ormai venditore di pesce in barile o affumicato: sardi salati, scapeci, renghi o saràchi, stoccapesci, baccalai, casbirru. La sera si passava nelle cantine a mangiare brascioli, marretti, cazzumarri e purpetti, e lu pizzettu il tutto innaffiato con ottimo mieru servito in mastodontici ursuli. Sazi, si giocava a morra, o all’arunchiu o all’tuddi. La mattina si esponevano le merci in bellamostra e si cominciava a decantarne i pregi e le qualità, gridando a squarciagola. Gli animali venivano condotti in fiera e le contrattazioni avevano inizio allo sparo di un mortaretto (cugnu) ed avevano valore solo se sulla stretta di mano dei contraenti si posava decisa la mano del sensale. Gli animali da tiro venivano provati facendo loro tirare in un campo arato, un carro carico e con le ruote legate. Il prezzo massimo per granaglie, formaggio e generi di prima necessità era stabilito ed imposto dal Sindaco o da chi per lui. L’artigiano locale contribuiva alla buona riuscita della manifestazione, oltre che con manufatti di diversa natura: scarpe, carri, tessuti di vario genere, ecc.

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